Ho la vaga impressione che se una qualsiasi università americana facesse una ricerca sui lavori più ambiti dagli italiani, al terzo posto, subito dopo l’imperatore del mondo e il dipendente della Regione siciliana, ci sarebbe il traduttore letterario. Assodato questo, mi chiedo perché, e ci metto un punto interrogativo gigantesco. Io, per dire, faccio la traduttrice letteraria ma, se se ne presentasse l’occasione, credo che non esiterei a cambiare mestiere. Ci sono periodi, tanto per capirci, che mi viene nostalgia del call-center, dove vegeti per un tot di ore al giorno, potendoti permettere il lusso di tenere in stand-by il cervello, hai il tuo bello stipendio a fine mese, con tanto di ferie pagate e compagnia. Il problema – e secondo me è un problema grosso, se non grossissimo – è che attorno alla traduzione, specie a quella letteraria, c’è un alone di romanticismo eccessivo e, per lo più, falso. Se, per esempio, qualche anno fa mi avessero spiegato quale sarebbe stata la mia vita, magari ci avrei rinunciato. Tanto per cominciare, a meno che non lo si faccia per hobby, tradurre è un lavoro come qualunque altro: devi alzarti la mattina presto, sederti al pc, rimanerci incollato per un pezzo e macinare la tua razione giornaliera di cartelle. Il più delle volte, passi mesi in compagnia di robaccia: libri senza capo né coda, scritti coi piedi, che ti costringono perfino a lavorare di fantasia, per tentare di dare un senso a qualcosa che un senso proprio non ce l’ha. Sei costretto a dire addio al tempo libero, nel quale bene che ti vada finisci per leggere – la bibliografia integrale, in originale e in traduzione, dell’autore di cui, per caso, ti hanno affidato il quarantacinquesimo volume; una serie di romanzi citati in una serie infinita di recensioni, perché il tuo autore del momento si ispira a quello e ricorda quell’altro; quel volume sulle grandi calamità della storia, perché sei alle prese con un romanzo nel quale ci sono un paio di inondazioni e vuoi essere sicura di usare tutti i termini giusti; eccetera. Rischi di non avere più una vita sociale, perché quella sera davanti a un piatto di fettuccine all’astice o quell’altra davanti a un flan di verdure, mentre i tuoi commensali erano immersi in una conversazione assolutamente mondana, uno se n’è uscito con la parola che cercavi invano da giorni e tu, per non perderla, hai tirato fuori il taccuino e te la sei appuntata. Senza contare certi logoranti rapporti con i revisori, o la senzazione di essere una mendicante quando, in maniera più che sacrosanta, solleciti un pagamento già in ritardo di un paio di mesi. Certo, ogni tanto c’è un lampo nel buio, ti capita quel romanzo bellissimo eccetera. Ma dopo un po’, cominci a pensare che, alla fine della fiera, forse, non ne vale la pena.
Io in effetti un pensierino a “Imperatore del mondo” continuo a farcelo.
;-)
Pensa che stanotte ho sognato che poter fare i traduttori bisognava farsi marchiare a fuoco… un rettangolo rosso che ci consentiva l’ingresso in questo strano impero… Coraggio!
tu sei molto molto saggia, beibi.
that’s why i love you.
io, sono molto saggia, come dice l’amica mia, ma anche un passo avanti, perché ambisco a diventare imperatrice dell’universo ;)
@luca: per te c’è sempre un posto da segretario, ovviamente!
@clara: no, il marchio a fuoco, no! è veramente troppo!
Infatti… scappavo, persino nel sogno :-) nn sprofondiamo nel pessimismo cosmico da traduttori, dai. C’è di peggio in giro… smuak!
imperatore del mondo, dipendente della regione siciliana, segretaria alla FAO. Believe me. :-)
in effetti, nemmeno segretaria della FAO dev’essere malaccissimo, come direbbe un’amica mia…
Quanta verità in queste immagini! :) Però se siamo sempre lì, davanti al computer, e addirittura ne scriviamo nei nostri blog, un motivo ci sarà, no? ;)
Passami a trovare, ho aperto da poco e usiamo lo stesso tema (pare molto popolare fra noi traduttori…)
A presto
Giuseppe